Il bianco & Nero della TV di una volta è il segno di una TV incolore?
E’ quanto ha affermato Gianni Boncompagni (Arezzo, 1932), protagonista di storici programmi come
Bandiera Gialla,
Alto Gradimento,
Discoring, e via dicendo.
Secondo il noto autore, intervistato stamane dalla RAI, il Bianco & Nero è per lui il segno di una televisione vecchia, paludata, censurata, moralistica, democristiana: una televione, insomma da dimenticare.
Credo, però, che questo sommario processo alla TV di una volta non sia condiviso da molti di noi, e non solo per una mera questione nostalgica, legata al buon tempo andato.
I programmi di quella TV saranno stati sì censurati (ma le censure erano delicatamente aggirate, se si pensa alle trasmissioni di Arbore, o ai delicati travisamenti di Vianello & Mondaini, che al problema dedicarono anche una gustosissima scenetta in
Tante Scuse), ma avevano qualcosa d’irripetibile, che manca a quelli di oggi: avevano garbo, misura, contegno, senso delle proporzioni; ed in qualche modo –che vorrei mi aiutaste a definire- esprimevano un concetto di TV-verità molto più
reale, se mi passate il termine, degli sguaiati ed improvvisati programmi di oggi.
Gli sceneggiati, i varietà, i contenitori della domenica avevano fior di autori, solide intelaiature delle trame, e non avevano certo bisogno di replicare a iosa i c.d.
format statunitensi o sudamericani, presunti buoni per tutti i palati, da quelli fini a quelli insensibili.
La censura (sì ma di cosa: della violenza tout court? Del malcostume? Della volgarità?) in qualche modo acuiva la sensibilità degli autori (pensiamo alla forte contestazione del potere dello storico
Giandomenico Fracchia), e diveniva la comune matrice del rispetto, dell’educazione, di una rappresentazione della realtà non sguaiata e non gridata.
Detta la mia, che cosa pensate voi della televisione in Bianco & Nero?
E’ solo nostalgia per la soffitta dei ricordi?
Oppure, è la stagione di un modo di vivere le cose?
A voi la parola, se volete.
RobertoC
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Dove finisce la ragione comincia un territorio che non ci appartiene, nel quale siamo intrusi: una terra di regole che non conosciamo, dove si parla una lingua misteriosa e dove le nostre logiche non sono utilizzabili in alcun modo.
Noi in questo territorio possiamo solo subire il mistero, che, anziché disvelarsi, si fa sempre più impenetrabile.
Io non so dire se questa sia una pena o un premio. Io non so dire nulla, ma so che questo luogo (...) non dev’essere in alcun modo cercato né in alcun modo trovato.
“Voci notturne”, 1995, epilogo.