Molte volte ci diciamo che la tale pellicola doveva fare qualcosa in più, che l'autore
non ha osato, che sarebbe bastato fare un piccolo passo ulteriore per farci considerare il lavoro meritevole di ricordo.
Ecco, a mio criticabile parere questo passo in più non lo si è fatto nel nostro caso, e non perché il tema fosse delicatissimo (erano quelli gli anni in cui De Mauro si preparava il letto di morte anche per aver raccolto elementi sulla morte di Mattei per lo straordinario film di Rosi, non dimentichiamocelo: chi voleva e sapeva farlo, osava e come!), quanto piuttosto perché si è preferito fermarsi ad un livello di superficie. Non dico che il soggetto avrebbe dovuto anticipare l'onda emotiva de
I cento passi, per carità, ma che sarebbe potuto e dovuto uscire dalla piccola sequenza di piccoli personaggi e di una piccola storia, impastata di una criminalità bassa, indolente, sonnecchiante, incolore nella sua incapacità di distinguersi dall'azione criminale lombarda o chessò io.
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Dove finisce la ragione comincia un territorio che non ci appartiene, nel quale siamo intrusi: una terra di regole che non conosciamo, dove si parla una lingua misteriosa e dove le nostre logiche non sono utilizzabili in alcun modo.
Noi in questo territorio possiamo solo subire il mistero, che, anziché disvelarsi, si fa sempre più impenetrabile.
Io non so dire se questa sia una pena o un premio. Io non so dire nulla, ma so che questo luogo (...) non dev’essere in alcun modo cercato né in alcun modo trovato.
“Voci notturne”, 1995, epilogo.