Cari amici (mi è caro chi condivide in tutto od in parte i miei interessi),
nel risalutarvi calorosamente
(i moderatori mi concederanno questo piccolo vezzo, visto che mi sono già presentato formalmente nell'apposita sezione)voglio cominciare questa mia partecipazione ai lavori del forum con un meta-quesito.
Il mio essere -come dire?- uno "sceneggiatofilo"
assuefatto ed irrecuperabile, mi ha posto, da sempre, dinanzi ad alcuni quesiti circa la natura del mio vizio, che, a quanto leggo, è anche il vostro.
Si discute di questo o quel prodotto televisivo con passione e competenza, e personalmente resto davvero ammirato, ad esempio, dalle doviziose schede tecniche del grande Tidus (che ho già incontrato in altri ambiti. Chissà se lo ricorda?), rispetto alle quali è veramente difficile aggiungere qualcosa. Se ne discute -dicevo- spesso cogliendo alcuni aspetti del genere o delle storie, approfondendo le trame, la psicologia, la tecnica (ho la pella d'oca se penso all'ottimo Daniele D'Anza), le atmosfere.
Eppure, ho l'impressione che il fascino che esercita su di noi (su chi scrive senz'altro) uno sceneggiato in bianco & nero, anche il meno riuscito (leggo qui, ad esempio, che "Ho incontrato un'ombra" non è piaciuto granché, sebbene si sia fatto correttamente notare che oggi farebbe un figurone in rapporto ai palinsesti delle TV esistenti) abbia un che di imperscrutabile e di assolutamente misterioso.
A ben vedere, alcune delle storie che hanno animato i nostri sogni d'infanzia o di gioventù, pur brillantemente rese (da ottimi sceneggiatori e registi) sono talvolta molto semplici (penso a "Dov'è Anna", ma anche a prodotti più riusciti come "Dimenticare Lisa", "Coralba" ed altri), e forse oggi, con la maturità di lettori e spettatori che abbiamo accumulato, vi accorderemo assai minore attenzione di un tempo.
Si affaccia dunque la mia domanda: perché gli sceneggiati?
Che cosa ci attrae irresistibilmente di questi racconti televisivi?
L'essere in bianco & nero? L'essere interpretati da attori veri, provenienti dalla dura scuola del teatro (Cervi, Stoppa, Pagliai, Gravina, Gaipa etc.)? Il raccontare storie in cui più o meno ci si possa identificare (storie credibili, e pertanto semplici)? La particolare costruzione delle trame?
O non è piuttosto il desiderio di rivivere momenti della nostra infanzia o giovinezza che ce li rende così accattivanti? O cos'altro ancora?
A voi, se lo credete, la palla.
A me i saluti
RobertoC (ora, per motivi tecnici: Roberto@C)
[Modificato da Roberto@C 15/01/2007 21.39]
[Modificato da Roberto@C 15/01/2007 21.45]
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Dove finisce la ragione comincia un territorio che non ci appartiene, nel quale siamo intrusi: una terra di regole che non conosciamo, dove si parla una lingua misteriosa e dove le nostre logiche non sono utilizzabili in alcun modo.
Noi in questo territorio possiamo solo subire il mistero, che, anziché disvelarsi, si fa sempre più impenetrabile.
Io non so dire se questa sia una pena o un premio. Io non so dire nulla, ma so che questo luogo (...) non dev’essere in alcun modo cercato né in alcun modo trovato.
“Voci notturne”, 1995, epilogo.